RECENSIONE DESCENDENTS “EVERYTHING SUCKS” (LP, EPITAPH RECORDS, 1996, 4/5)

Uscito nel 1996, “Everything Sucks segna il ritorno in grande stile dei Descendents dopo anni di silenzio discografico (tra il 1987, anno di “All”, e il 1996, sui palchi si presentarono gli All)

In quel momento, il rischio era di non reggere il confronto con i loro capolavori del passato. Questo loro quinto album non è “Milo Goes to College, non è “I Don’t Want to Grow Up, dischi che hanno fatto scuola e definito un’epoca, ma è comunque un disco che sta lì, sul podio dei migliori della loro carriera: energico, compatto, pieno di pezzi che sanno ancora dire la loro.

Il disco mescola al meglio l’energia hardcore delle origini con quella vena melodica che i Descendents hanno sempre saputo rendere unica, senza mai scadere nella banalità.

Ci sono episodi brevi e brucianti come “Coffee Mug”, un minuto scarso di pura caffeina hardcore, un inno alle notti insonni, urlato come se fosse questione di vita o di morte. Breve, furioso e geniale: ti lascia col sorriso e la voglia di premere subito “repeat”.

Poi c’è “Everything Sucks”, un pezzo veloce, diretto, ironico e frustrato al punto giusto, che con tre accordi ti ricorda chi sono i Descendents e cosa sono capaci di fare. Un classico, come un classico è “I’m the One”, brano che sintetizza alla perfezione la scrittura della band: diretto, melodico, emozionante, con un ritornello perfetto. Non a caso è diventato, di diritto, uno dei classici assoluti dei Descendents.

In definitiva, “Everything Sucks non riscrive la storia come i primi lavori, ma ha la forza di un disco vero, sincero, fatto da una band che non ha mai avuto bisogno di artifici,che dimostra come i Descendents, anche dopo anni, sanno ancora fare quello che vogliono meglio di chiunque altro: punk rock onesto, diretto, che ti fa venire voglia di saltare, ridere e cantare tutto insieme. Non è nostalgia, è semplicemente una grande band che continua a fare grandi dischi

(Riki Signorini)

I brani

1.   Everything Sux

2.   I'm The One

3.   Coffee Mug

4.   Rotting Out

5.   Sick-O-Me

6.   Caught

7.   When I Get Old

8.   Doghouse

9.   She Loves Me

10.  Hateful Notebook

11.  We

12.  Eunuch Boy

13.  This Place

14.  I Won't Let Me

15.  Thank You

RECENSIONE FUGAZI “13 SONGS” (LP, 1989, DISCHORD RECORDS, 5/5)

Se ha senso usare l’aggettivo “fondamentale” nella recensione di un disco, allora “13 Songs” dei Fugazi è uno di quei casi in cui l’aggettivo è speso benissimo.

Io amo i Fugazi dalla prima volta che li vidi al Macchia Nera, durante il loro primo tour europeo, prima ancora che esistesse un loro disco ufficiale (l’EP omonimo, incluso in questa raccolta, uscì proprio in quell’occasione). Andai a vederli perché c’erano Ian e Jeff dei Minor Threat e Guy e Brendan dei Rites of Spring. Ma quando li ascoltai mi trovai davanti a qualcosa di completamente diverso: un suono che non aveva nulla a che vedere con le band hardcore di Washington DC, ma che era nuovo, potente, killer. Non solo una lezione, ma l’apertura di una vera e propria università del suono nuovo.

13 Songs raccoglie i due EP iniziali (Fugazi e Margin Walker) e rimane, a distanza di decenni, un debutto assoluto e imprescindibile: voci intrecciate, chitarre affilate, una sezione ritmica solidissima e un approccio che ha ridefinito i confini del post-hardcore. Un disco che ha fatto scuola, ispirando intere generazioni, e che resta un manifesto dell’etica DIY, della coerenza artistica e della possibilità di fare musica indipendente senza compromessi.

E poi ci sono le canzoni. Ogni pezzo ha una sua personalità e contribuisce a comporre un mosaico sonoro unico:

Fugazi (EP, 1988)

  1. Waiting Room – Un intro storico: basso in levare, groove inarrestabile, esplosione controllata. Manifesto di una nuova era.
  2. Bulldog Front – Diretto e serrato, un attacco frontale che mostra il lato più militante della band.
  3. Bad Mouth – Rabbia pura, ma con una struttura che già esce dagli schemi hardcore.
  4. Burning – Atmosfera quasi ossessiva, ritmo ipnotico che cresce fino a esplodere.
  5. Give Me the Cure – Voce e chitarra in dialogo, alternanza di calma e tempesta.
  6. Suggestion – Un testo potente contro sessismo e molestie, ancora oggi attualissimo.
  7. Glue Man – Cupo, allungato, quasi sludge: una chiusura lenta e corrosiva, piena di tensione.

Margin Walker (EP, 1989)

  1. Margin Walker – Urgente e diretto, due minuti e mezzo di energia compressa.
  2. And the Same – Visionaria e sperimentale, con cambi di tempo che disorientano e affascinano.
  3. Burning Too – Linee melodiche intrecciate, uno dei brani più accessibili senza perdere intensità.
  4. Provisional – Teso, nervoso, con chitarre affilate come rasoi.
  5. Lockdown – Sezione ritmica granitica e groove claustrofobico.
  6. Promises – Lunga, ipnotica, dolente: una sorta di manifesto lirico e sonoro della band.

“13 Songs” non racconta solo un’epoca: suona ancora urgente, necessario e, appunto, fondamentale. Un disco che dimostra come la musica possa essere innovativa, politicamente consapevole e indipendente senza compromessi.


(Riki Signorini)