RECENSIONE DE LA SAGA M. DI ANTONIO SCURATI (BOMPIANI, 2018-2024, SV)

Ho terminato la lettura dei cinque volumi della saga M. di Antonio Scurati: oltre tremila pagine che ricostruiscono l’ascesa, il consolidamento, il declino e la fine di Mussolini e del fascismo. È stata una lettura lunga, e in certi passaggi francamente faticosa. Lo stile di Scurati, denso, documentale, volutamente ridondante, non è sempre fluido. A volte ho avuto la sensazione di leggere più un archivio che un romanzo. Eppure, nonostante questo, mi sono letto tutto.

E ne sono uscito cambiato.

Ho imparato molto. Di Mussolini, del regime, delle complicità, degli entusiasmi, della violenza sistematica che non fu una parentesi casuale ma una scelta coerente. Ho imparato quanto, nel racconto che ne facciamo a scuola, si sia spesso lasciato spazio a grandezze inventate, a semplificazioni rassicuranti, a omissioni.

Perché M. dimostra una cosa con enorme chiarezza: il fascismo non fu un incidente. Fu un progetto. Con consenso, con organizzazione, con adesioni convinte.

Penso che nelle scuole italiane non se ne parli abbastanza, e soprattutto non abbastanza profondamente. La lettura dei singoli volumi può richiedere tempo e pazienza, ma il loro valore educativo è indiscutibile. Anzi, credo che questa saga dovrebbe essere incoraggiata nella formazione storica dei ragazzi.

E, se proprio non si possono leggere tutti i volumi, renderei obbligatoria almeno la lettura degli ultimi due capitoli dell’ultimo libro, M. La fine e il principio.
Sono due capitoli che da soli valgono un corso universitario:

  • Quello in cui vengono narrate le morti dei principali protagonisti del ventennio, e soprattutto il destino di chi non morì: come molti gerarchi, funzionari, giornalisti e intellettuali del regime si riciclarono senza fatica nella nuova vita politica e sociale della Repubblica. Pagina dopo pagina emerge chiarissimo un punto: in Italia non c’è stata una vera resa dei conti col fascismo. Non abbiamo mai davvero chiuso. E oggi lo vediamo bene.
  • E l’ultimo capitolo, dedicato a Liliana Segre, che è quasi un epilogo morale: dalla violenza delle leggi razziali ai campi di sterminio, fino al ritorno alla vita, fiaccata ma non spezzata. Scurati qui non narra: ascolta. E ci chiede di ascoltare con lui. È una pagina che toglie il fiato, perché ci ricorda che la storia non è passata: è un testimone da raccogliere.

In definitiva, posso dire che leggere M. è stato a volte difficile, sì. Ma è stato anche necessario.
Perché non basta dire “mai più”:
bisogna sapere cosa è stato.
E questo, Scurati ce lo consegna, senza sconti e senza scorciatoie.

(Riki Signorini)

 I libri

 1.   M. Il figlio del secolo Bompiani, 2018

2.   M. L’uomo della provvidenza Bompiani, 2020

3.   M. Gli ultimi giorni dell’Europa Bompiani, 2022

4.   M. L’ora del destino Bompiani, 2023

5.   M. La fine e il principio Bompiani, 2024

RECENSIONE MADNESS “ONE STEP BEYOND” (LP, 1979, STIFF RECORDS, 4/5)

C’è un momento preciso in cui la musica britannica smette di prendersi troppo sul serio, si guarda allo specchio e decide di ridere.

È il 1979, e mentre il punk degli albori sembra ripiegarsi su se stesso, dai pub di Camden Town arriva una nuova esplosione: cappelli a bombetta, giacche strette, passi sincopati e un sax che ti entra in testa come una sirena d’allarme.

One Step Beyond dei Madness è il manifesto perfetto di quel momento;  uno ska reinventato per la generazione post-punk, più ritmico che politico, più teatrale che rabbioso.

Con quell’urlo d’apertura (Hey you! Don’t watch that! Watch this! ) la band londinese accende la miccia del 2 Tone, l’ibrido tra ska giamaicano e furia punk che in pochi mesi avrebbe conquistato l’Europa.

Ma mentre i coetanei Specials e Selecter suonavano la rabbia, i Madness preferivano la risata.

Nei loro brani non c’era militanza, ma vita quotidiana: pub, amori impacciati, ironia da quartiere e una malinconia sottile, sempre mascherata da un sorriso.

Dentro One Step Beyond c’è tutta l’energia delle strade di Londra: “My Girl, “The Prince, “Night Boat to Cairo… inni da ballare col sorriso, ma con quella malinconia obliqua che solo gli inglesi sanno nascondere dietro la birra e l’ironia.

Pezzi semplici ma efficaci, dove il ritmo in levare si unisce a melodie immediate e arrangiamenti brillanti.

Il successo fu immediato e travolgente. In pochi mesi i Madness passarono dall’essere i ragazzi strambi dei pub di Camden a fenomeno pop nazionale.

E nel 1980 successe qualcosa di impensabile: l’Italia, ancora avvolta nei suoi lenti melodici e nei lustrini di varietà, li invitò al Festival di Sanremo.
Sul palco dell’Ariston, tra un Al Bano e una Romina, comparvero loro: sette inglesi vestiti da impiegati vittoriani, che saltellavano a tempo di ska come marionette ubriache.

La platea, divisa tra il panico e la fascinazione, applaudì senza capire bene cosa stesse succedendo. Era il 2 Tone che sfondava la cortina del perbenismo televisivo. Una breve, meravigliosa invasione culturale.

A distanza di più di quarant’anni, One Step Beyond resta un disco che non invecchia mai perché non appartiene a un tempo preciso. È un promemoria di quando la musica era spontaneità pura, contagiosa, capace di portare un po’ di Camden anche a Sanremo.

Un disco che al tempo non mi fece impazzire (come potevamo apprezzare il disco di un gruppo che passava da Sanremo????), ma che vale la pena riscoprire oggi. Per ricordarsi che si può essere irriverenti senza essere nichilisti, felici senza essere banali. Lo ska dei Madness era (ed è) una festa con il cervello acceso, che ha insegnato a una generazione che si può ballare con ironia.
Ogni volta che parte quel riff di sax, il mondo sembra di nuovo pronto a saltare a tempo.

Non un disco perfetto, ma un disco necessario: il momento in cui lo ska entrò nel pop — e, per qualche minuto, anche a Sanremo.

(Riki Signorini)

I brani

1.   One Step Beyond...

2.   My Girl

3.   Night Boat To Cairo

4.   Believe Me

5.   Land Of Hope & Glory

6.   The Prince

7.   Tarzan's Nuts

8.   In The Middle Of The Night

9.   Bed & Breakfast

10.  Razor Blade Alley

11.  Swan Lake

12.  Rockin' In A

13.  Mummy's Boy

14.  Madness

15.  Chipmunks Are Go!

RECENSIONE NEGAZIONE “LO SPIRITO CONTINUA” (1986, KONKURREL RECORDS, poi T.V.O.R. on Vinyl, 5/5)

Quando uscì per la prima volta nel 1986 su Konkurrel, Lo Spirito Continua fu una scossa elettrica. Tre anni dopo, nel 1989, la ristampa su TVOR on Vinyl ne consolidò definitivamente lo status di disco imprescindibile, un caposaldo assoluto della Old School of Italian Hardcore. E quando lo si riascolta oggi, resta ancora un pugno nello stomaco e insieme un abbraccio collettivo: rabbia, disagio e desiderio di riscatto trasformati in energia pura, con quel mix di furia hardcore e spunti melodici che non ha perso un solo grammo di intensità.

Non è un disco perfetto: è imperfetto, impreciso, a tratti grezzo. Ma è proprio lì la sua grandezza, in quell’urgenza che rende ogni brano un manifesto. “La Vittoria della Sconfitta”, ad esempio, è forse l’emblema più chiaro del lavoro: un titolo che già da solo è un manifesto e un testo che ribalta l’idea stessa di fallimento, trasformandolo in forza e consapevolezza. È un inno che scuote ancora oggi, perché insegna che perdere non significa cedere, ma resistere. Con “Diritto Contro un Muro” la rabbia e la frustrazione si fanno musica senza filtri: l’hardcore dei Negazione qui è diretto, spietato, senza concessioni, e quel muro diventa insieme ostacolo e simbolo, contro cui continuare a sbattere pur di non smettere di lottare. E poi c’è “Lo Spirito Continua”, la title track, che si eleva a grido collettivo: i cori intensi e memorabili sono il cuore pulsante del brano, un richiamo che ancora oggi unisce chiunque lo ascolti. Non è soltanto una canzone, ma un motto, un passaggio di testimone generazionale che continua a vibrare nel tempo.

Accanto a questi tre colossi si trovano altri brani altrettanto significativi – “Thinkin’ of Somebody Else”, “Un Amaro Sorriso”, “Lasciami Stare”, “Lei ha bisogno di qualcuno che la guardi” – che completano un album compatto e rabbioso, capace di alternare ferocia e malinconia, urgenza urlata e momenti di introspezione.

A quasi quarant’anni dalla sua prima uscita, Lo Spirito Continua resta un disco irripetibile. Non solo per ciò che ha significato allora, ma per quello che continua a trasmettere oggi: i Negazione non si sono limitati a fare hardcore, lo hanno reso vivo, reale, necessario.

(Riki Signorini)

I brani

A1           La Vittoria Della Sconfitta

A2           Lasciami Stare

A3           Thinkin' Of Somebody Else

A4           Diritto Contro Un Muro

A5           Niente

 

B1           Un Amaro Sorriso

B2           Straight & Rebel

B3           Qualcosa Scompare

B4           Lei Ha Bisogno Di Qualcuno Che La Guardi

B5           Lo Spirito Continua

RECENSIONE BEE LIVERS “BECKY BEE” (EP12, 2025, ROCKA RECORDS, 3/5)

I Bee Livers sono una band del nuovo millennio, ma composta da volti storici che hanno scritto pagine fondamentali dell’hardcore italiano del millennio precedente: Franz (Rappresaglia), Fabrizio Venturi (Stalag 17), Roberto “Crema” Calli (Wretched) e Fabricious (Crash Box). Nonostante siano passati decenni dai loro esordi, questi quattro dimostrano di avere ancora quello spirito che è ancora capace di lasciare il segno.

Il debutto Becky Bee raccoglie cinque brani più una hidden track, pubblicati su vinile da 180 grammi, con tanto di fumetto interno che introduce le avventure della protagonista.

Musicalmente il disco non punta più sulla furia cieca e sulla velocità di un tempo, ma su un impatto sonoro che mescola noise, rock’n’roll, punk e post-hardcore. Due voci, due chitarre, basso e batteria: il tutto rigorosamente suonato, senza fronzoli. Il risultato è un suono diretto, sporco e accattivante, che mantiene l’attitudine hardcore pur evolvendola in nuove direzioni.

Becky Bee non è nostalgia, non è revival. È la prova che certe radici non invecchiano mai: cambiano pelle, si contaminano, ma restano vitali. Sei tracce compatte, potenti e sincere, che colpiscono oggi come allora — anche se in modo diverso.


(Riki Signorini)

I brani

1.   Becky Bee

2.   Self Confident Man

3.   Go Away

4.   Demons Game

5.   Two Year Nation Party

6.   Bee Intro (hidden / bonus)

I contatti

Rocka Tapes

Bee Livers

RECENSIONE DESCENDENTS “EVERYTHING SUCKS” (LP, EPITAPH RECORDS, 1996, 4/5)

Uscito nel 1996, “Everything Sucks segna il ritorno in grande stile dei Descendents dopo anni di silenzio discografico (tra il 1987, anno di “All”, e il 1996, sui palchi si presentarono gli All)

In quel momento, il rischio era di non reggere il confronto con i loro capolavori del passato. Questo loro quinto album non è “Milo Goes to College, non è “I Don’t Want to Grow Up, dischi che hanno fatto scuola e definito un’epoca, ma è comunque un disco che sta lì, sul podio dei migliori della loro carriera: energico, compatto, pieno di pezzi che sanno ancora dire la loro.

Il disco mescola al meglio l’energia hardcore delle origini con quella vena melodica che i Descendents hanno sempre saputo rendere unica, senza mai scadere nella banalità.

Ci sono episodi brevi e brucianti come “Coffee Mug”, un minuto scarso di pura caffeina hardcore, un inno alle notti insonni, urlato come se fosse questione di vita o di morte. Breve, furioso e geniale: ti lascia col sorriso e la voglia di premere subito “repeat”.

Poi c’è “Everything Sucks”, un pezzo veloce, diretto, ironico e frustrato al punto giusto, che con tre accordi ti ricorda chi sono i Descendents e cosa sono capaci di fare. Un classico, come un classico è “I’m the One”, brano che sintetizza alla perfezione la scrittura della band: diretto, melodico, emozionante, con un ritornello perfetto. Non a caso è diventato, di diritto, uno dei classici assoluti dei Descendents.

In definitiva, “Everything Sucks non riscrive la storia come i primi lavori, ma ha la forza di un disco vero, sincero, fatto da una band che non ha mai avuto bisogno di artifici,che dimostra come i Descendents, anche dopo anni, sanno ancora fare quello che vogliono meglio di chiunque altro: punk rock onesto, diretto, che ti fa venire voglia di saltare, ridere e cantare tutto insieme. Non è nostalgia, è semplicemente una grande band che continua a fare grandi dischi

(Riki Signorini)

I brani

1.   Everything Sux

2.   I'm The One

3.   Coffee Mug

4.   Rotting Out

5.   Sick-O-Me

6.   Caught

7.   When I Get Old

8.   Doghouse

9.   She Loves Me

10.  Hateful Notebook

11.  We

12.  Eunuch Boy

13.  This Place

14.  I Won't Let Me

15.  Thank You

RECENSIONE FUGAZI “13 SONGS” (LP, 1989, DISCHORD RECORDS, 5/5)

Se ha senso usare l’aggettivo “fondamentale” nella recensione di un disco, allora “13 Songs” dei Fugazi è uno di quei casi in cui l’aggettivo è speso benissimo.

Io amo i Fugazi dalla prima volta che li vidi al Macchia Nera, durante il loro primo tour europeo, prima ancora che esistesse un loro disco ufficiale (l’EP omonimo, incluso in questa raccolta, uscì proprio in quell’occasione). Andai a vederli perché c’erano Ian e Jeff dei Minor Threat e Guy e Brendan dei Rites of Spring. Ma quando li ascoltai mi trovai davanti a qualcosa di completamente diverso: un suono che non aveva nulla a che vedere con le band hardcore di Washington DC, ma che era nuovo, potente, killer. Non solo una lezione, ma l’apertura di una vera e propria università del suono nuovo.

13 Songs raccoglie i due EP iniziali (Fugazi e Margin Walker) e rimane, a distanza di decenni, un debutto assoluto e imprescindibile: voci intrecciate, chitarre affilate, una sezione ritmica solidissima e un approccio che ha ridefinito i confini del post-hardcore. Un disco che ha fatto scuola, ispirando intere generazioni, e che resta un manifesto dell’etica DIY, della coerenza artistica e della possibilità di fare musica indipendente senza compromessi.

E poi ci sono le canzoni. Ogni pezzo ha una sua personalità e contribuisce a comporre un mosaico sonoro unico:

Fugazi (EP, 1988)

  1. Waiting Room – Un intro storico: basso in levare, groove inarrestabile, esplosione controllata. Manifesto di una nuova era.
  2. Bulldog Front – Diretto e serrato, un attacco frontale che mostra il lato più militante della band.
  3. Bad Mouth – Rabbia pura, ma con una struttura che già esce dagli schemi hardcore.
  4. Burning – Atmosfera quasi ossessiva, ritmo ipnotico che cresce fino a esplodere.
  5. Give Me the Cure – Voce e chitarra in dialogo, alternanza di calma e tempesta.
  6. Suggestion – Un testo potente contro sessismo e molestie, ancora oggi attualissimo.
  7. Glue Man – Cupo, allungato, quasi sludge: una chiusura lenta e corrosiva, piena di tensione.

Margin Walker (EP, 1989)

  1. Margin Walker – Urgente e diretto, due minuti e mezzo di energia compressa.
  2. And the Same – Visionaria e sperimentale, con cambi di tempo che disorientano e affascinano.
  3. Burning Too – Linee melodiche intrecciate, uno dei brani più accessibili senza perdere intensità.
  4. Provisional – Teso, nervoso, con chitarre affilate come rasoi.
  5. Lockdown – Sezione ritmica granitica e groove claustrofobico.
  6. Promises – Lunga, ipnotica, dolente: una sorta di manifesto lirico e sonoro della band.

“13 Songs” non racconta solo un’epoca: suona ancora urgente, necessario e, appunto, fondamentale. Un disco che dimostra come la musica possa essere innovativa, politicamente consapevole e indipendente senza compromessi.


(Riki Signorini)

RECENSIONE ACREDINE “IN DISPARTE + RAW & UNRELEASED” (LP, 2025, ROCKA TAPES, 4/5)

Prima ancora di parlarvi del disco – che è a nome Acredine, ma fu pubblicato a suo tempo come se fosse degli Indigesti, e a buon diritto – lasciatemi raccontare un aneddoto sul mio legame, più sentimentale che musicale, con la band di Rudy Medea.

Era il tempo del leggendario split 7” tra Indigesti e Wretched. Rudy me lo spedì per posta. Io abitavo in campagna, e il buon postino pensò bene di lasciarlo sul muretto davanti a casa. Blitz, il mio cane, lo trovò prima di me. Rosicchiò il pacco e riuscì a intaccare proprio i primi due pezzi del disco: quelli non li ho mai sentiti dalla mia copia, e ancora me li sogno.

Flashforward: sono passati più di quarant’anni, è un’estate rovente, e succede la stessa scena. Il nuovo disco (di nuovo Rudy, di nuovo quel suono) viene lasciato su un altro maledetto muretto.

E stavolta non è Blitz, ma un acquazzone torrenziale a rovinarlo: copertina danneggiata, vinile imbarcato.

Ma – almeno! – stavolta il disco è ascoltabile nella sua interezza. E ne vale la pena.

Perché In Disparte è un disco degli Indigesti a nome Acredine, o degli Acredine che suonano da Indigesti. Comunque lo si voglia leggere, il risultato non cambia: è una gemma nascosta dell’hardcore punk italiano, 22 tracce per 45 minuti di rabbia, velocità e consapevolezza.

Su vinile per la prima volta, con audio rimasterizzato e una fulminea cover di "Blind Justice" degli Agnostic Front che sembra sputata fuori dal cuore della Torino-Vercelli anni ’80.

C’è Rudy Medea alla voce e ai testi – inconfondibile, ruvido, lucido. Con lui Enrico degli Indigesti , Mungo del Declino (che suona il basso in quasi tutti i brani, la chitarra solista in un paio e canta nei cori dove presenti), Xlaidox (già in Right In Sight e Indigesti, nonché grafico per Vacation House Records e Blu Bus Dischi) e Tino, anche lui proveniente dalla scena hardcore piemontese.

Una vera superband nata nel ’97 come prosecuzione naturale e matura degli Indigesti, a nome Acredine.

Il disco uscì solo in CD, e fu accreditato anche agli Indigesti: oggi quelle copie sono da collezione.

Questa nuova edizione su LP rende finalmente giustizia a un capitolo fondamentale – anche se spesso dimenticato – dell’hardcore nostrano.

Il lato A del vinile ripropone integralmente i brani originali del CD, con pezzi come “In Disparte”, “Opaco Istinto Inutile”, “Cancella Elimina” o “Esistere – Resistere”, che riportano immediatamente a quel suono nervoso, compatto, abrasivo, ma allo stesso tempo carico di una tensione esistenziale che è marchio di fabbrica di Rudy. Non è solo energia: è uno sguardo critico e poetico sul vivere, sul resistere, sul senso stesso dell’essere "contro".

Poi c’è il lato B, la sorpresa di questa ristampa: una collezione di tracce rare e inedite, tra cui spicca “Blind Justice” rifatta “alla Indigesti”, e varie versioni alternative o strumentali dei brani del lato A. C’è anche una chicca come “Mezzalama” e una seconda versione di “Oltre il Confine”, che aggiunge profondità al concept e al suono dell’intero album. Le versioni strumentali, lungi dall’essere dei semplici riempitivi, permettono di apprezzare meglio l’intreccio chitarristico, la potenza della sezione ritmica e l’intenzione compositiva che c’è dietro ogni pezzo. È come ascoltare l’anima cruda del disco, nuda, senza filtri.

Chiude il cerchio un’intervista inedita a Rudy Medea, firmata da Luca Frazzi, inserita nella busta interna: un racconto sincero, senza filtri, di uno dei padri fondatori del punk hardcore italiano.

Non sarà il loro disco migliore, ma è uno di quelli che non devono mancare. Per chi c’era, per chi è arrivato dopo, per chi pensa che l’hardcore sia solo una questione di volume: ascoltate questo disco. È ancora, orgogliosamente, una questione di cuore.


(Riki Signorini)

I brani

LATO A 

1.   Intro  

2.   In Disparte  

3.   Opaco Istinto Inutile  

4.   Cancella / Elimina  

5.   Dare  

6.   Innaturale  

7.   Esistere - Resistere  

8.   Confine  

9.   Anomalia  

10.  Outro  

LATO B

1.   Blind Justice  

2.   Respiro  

3.   In Disparte

4.   Esistere-Resistere

5.   Mezzalama

6.   Innaturale

7.   Oltre Il Confine

8.   Anomalia

9.   Cancella-Elimina

10.  Oltre Il Confine [strumentale]

11.  Inutile [strumentale]

12.  outro

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